Ma davvero l’espatrio ci rende più aperti?
Insomma, io comincio ad avere qualche dubbio. No, non sono diventata una retrograda, e neanche lamentosa (cioè sì, mi lamento, ma capitemi: non più di altri, e meno di molti, mettiamola così). Però dopo sette anni in Asia mi comincio a fare delle domande, domande che non mi sarei mai posta prima.
Quando sono partita per Hong Kong, nel 2011, conoscevo già un pochino la città per esserci andata in vacanza l’anno precedente. Non avevo però ovviamente idea di quello che poteva essere il suo mondo lavorativo, il tessuto sociale, le relazioni interpersonali. In quel periodo abitavo in Francia e non mi sentivo spaesata neanche un po’.
Partivo con le migliori intenzioni: mi consideravo una persona aperta, senza troppi pregiudizi, anzi, anche un po’ idealista. Mi piaceva l’idea che ognuno vivesse secondo la propria cultura e insomma, “la tua libertà finisce dove inizia la mia” e peace and love, dai.
Arrivata ad Hong Kong, mi sono resa conto che:
- le mie colleghe cinesi parlavano di proposito in cantonese per non farsi capire, e mi chiedevano dove abitassi, commentando che “wow, é caro” *
- gli Indiani erano universalmente riconosciuti come il peggior cliente che ti potesse capitare: io ho avuto scambi di decine di mail (giuro, decine!) per una riduzione di due euro su un menù ad una festa di compleanno, perché “caffè e tè sono inclusi nel prezzo, ma se poi mio cugino non lo beve?” (stiamo parlando di milionari. Non scherzo).
- i giapponesi sorridevano sempre dicendo che era andato tutto alla perfezione, salvo poi scrivere una lettera di lamentele di 2000 battute il giorno dopo, copia conoscenza a tutte le guide gastronomiche dell’orbe terracqueo
- in Asia non sempre si veniva rispettati in quanto persona, come dovrebbe essere (e come ad esempio in Europa si cerca di fare, fosse anche solo pro forma) ma si guardava alla provenienza geografica, all’estrazione sociale, alla classe di appartenenza, e così via.
Chi mi legge sa che dopo Hong Kong sono arrivate Tokyo e Taipei. È arrivata la consapevolezza che non mi è andata male per nulla, che sono stata felice in maniera diversa in tutte e tre queste città, che tutte e tre erano piene di pregi e difetti come tutti gli altri posti del mondo.
Ma ho cominciato a riflettere su molte cose: sul fatto che un cliente potesse essere sgradevole con un collega cinese ma educatissimo e piacevole con me (“perché sei Western“, mi sono beccata), sul fatto di non essere mai riuscita a stringere amicizie davvero intense e durature con i locals, su quanto amavo il mio lavoro a Tokyo…con colleghi francesi in una compagnia francese, certo, mentre mio marito impazziva coi colleghi giapponesi.
Ma davvero l’espatrio ci rende più aperti?
Me lo chiedo, perché io a volte mi osservo con paura e mi rendo conto che no, non sono più “aperta”, open minded di prima, anzi. Ci sono le cose che di questo paese, di questo continente non sopporto, ci sono atteggiamenti che non tollero, ci sono le volte in cui sbuffo ed attribuisco un dato comportamento a tutto un popolo, che mi sorprendo a dire “Vabbè, i soliti Giapponesi”, oppure “Ecco, i Cinesi, tanto per cambiare”.
Tutte cose che non avrei mai sognato di dire o pensare. Avevo forse una visione troppo idealista? Pensavo di essere migliore di quella che sono?
E a voi è capitato? Siete cambiati durante l’espatrio? Vi sentite più aperti o come me ogni tanto diventate il Grinch?
Veronica, Taiwan
*NdR: le mie colleghe, quelle che sei mesi dopo mi avrebbero fatto la torta a sorpresa per il mio compleanno e che erano disperate quando sono partita. Con cui ho condiviso, poi, due anni di risate e nervosismi (anche per colpa degli Indiani). Amy, Dora, Ellie, le mie tre hostess.
Gentile Signora, le opinioni che ci ha esposto si possono condividere come non condividere, ma hanno un pregio indiscutibile: se le e’ formate lei sul posto, con la sua esperienza. In questo senso, altrettanto indiscutibilmente l’espatrio la ha resa piu’ aperta.
Grazie Francesco, effettivamente non avevo pensato di guardare da questa prospettiva 🙂
Dipende da cosa intendiamo per “essere più aperti”. Secondo me non significa diventare maestri zen e tollerare qualsiasi cosa 🙂 Cioè, siamo tutte persone diverse, ci sta che certi atteggiamenti ci stiano sulle scatole. Nel senso che magari certi modi “cinesi” di fare a te stanno sulle scatole e a me no.
A me l’espatrio ha aiutato a far cadere molti pregiudizi, a considerare gli stili di vita altrui una liberissima e sacrosanta scelta e a volte ad abbracciarli a mia volta, cosa che in passato non avrei fatto.
Non so però se sia l’espatrio in sé ad aiutare, quanto più il conoscere persone di cultura diversa: ti faccio l’esempio con il mio lavoro di supporto al cliente, che mi permette di parlare ogni giorno con persone da tutto il mondo. Non le incontro personalmente, sono sempre ferma qui di fronte al mio pc a Barcellona, ma è innegabile che ci siano atteggiamenti culturali che si ripetono. Vorrei tanto avere il tempo di fare una ricerca antropologica su come, persone da diverse parti del mondo, si approcciano in maniera diversa a chi lavora nel supporto al cliente, per dire 😉
Si, è una cosa che ho notato anche io, e spesso si ha timore di dirlo 🙂 ansiosa di leggere la tua ricerca se un giorno arrivera!
Io ho notato una differenza enorme tra la mia reazione alla Francia (dove er più giovane, avevo più tempo per me ed ero in una città a misura umana) e al Regno Unito, cinque anni dopo, con lavoro e studio da bilanciare, e zero tempo per me che tre ore al giorno vengono risucchiate da una città che si stende su una superficie enorme. Forse anche la cultura British non è così open minded come quella Francese, ma mi rispecchio nel tuo articolo più di quanto avrei fatto qualche anno fa!
Non so se è un bene Elisa 🙂
Veramente interessante la tua riflessione. Anche io sono arrivata in Australia con certe convinzioni che poi nei sette anni da che siamo qui si sono andate un po’ modificando restringendo un po’ la mia originale apertura mentale e riducendo a volte le riflessioni ad un semplice: ” vabbè so australiani…che ci vuoi fare!”. E ti dirò che una mia cara amica che non ha mai vissuto all’estero ma che ha avuto in casa a rotazione decine di collaboratrici provenienti dai paesi più diversi , è arrivata alla stessa conclusione. Quindi credo che non si tratti di apertura mentale che si restringe per cosi dire, piuttosto di presa di coscienza sul campo del fatto che certe idee teoriche poi in pratica non sono affatto realistiche. Adesso tu hai una Maggior conoscenza del mondo, delle diversità e delle diverse mentalità che non sono certo tutte aperte e accoglienti come vorremmo credere….non ancora per lo meno e quindi sei meno idealista come tutte noi dopo anni di esperienze di vita all’estero ma non necessariamente più limitata nei giudizi, anzi.
Cara Solare, grazie del tuo commento. Si, probabilmente non sono meno aperta quanto meno idealista…fa parte in fondo del mio processo di crescita e cambiamento di questi ultimi 7 anni in Asia, e forse sarebbe successo anche se non mi fossi mai mossa 🙂